Mercoledì 10 aprile, 9 di sera – Molo Favaloro di Lampedusa
Naufragio, 22 superstiti, 9 salme e 15 dispersi.
Quella sera in molte parti del mondo si festeggiava l'Eid, la fine del Ramadan. A Lampedusa, anche tra chi non è musulman* si percepiva aria di festa e spensieratezza. L'isola nel frattempo iniziava a risvegliarsi dal letargo invernale e le ultime canzoni del festival di Sanremo risuonavano da tutti i bar e ristoranti, diffondendosi in ogni angolo dell'isola.
Arriva un messaggio: alle 20.30 sbarco al Molo, si tratta di un naufragio, c'è anche il corpo di una ragazzina.
L'ennesimo arrivo, l'ennesimo naufragio.
Nei giorni precedenti, non ero mai riuscita ad andare agli sbarchi quindi, nonostante i miei piani fossero di festeggiare l'Eid, do la mia disponibilità e velocemente mi preparo per andare al Molo. Insieme alle altre persone del Forum Solidale di Lampedusa, ci siamo ritrovate lì davanti ai cancelli, all'inizio dell'area militare. Essendo attrici e attori della società civile presenti durante gli sbarchi, per nessuna di noi si trattava del primo sbarco e nemmeno del primo naufragio. Con anche un'ingenua leggerezza protettiva ci siamo avvicinate al punto di sbarco. Abbiamo visto le luci della motovedetta della Guardia Costiera italiana ancora lontane nell'oscurità del cielo che si unisce a quella del mare. Luci che si opponevano a quelle della terraferma, provenienti dalle case del paese o da via Roma, la via principale dell'isola, da cui si sentivano solamente lontani echi di suoni e di voci.
Mentre la motovedetta si avvicinava sempre più, abbiamo iniziato a vedere le ambulanze che arrivavano. Non una come al solito, ma almeno due o tre che si fermavano all'inizio del molo. L'aria ha iniziato a farsi più greve, c'erano persone col volto preoccupato che correvano e si scambiavano veloci comunicazioni. Abbiamo capito che la situazione era diversa e la tensione è salita.
La motovedetta della Guardia costiera italiana si è avvicinata al Molo e ha iniziato a ormeggiare. Solitamente noi non ci possiamo avvicinare alla zona di sbarco e quindi, con il collo allungato, siamo rimaste distanti, pronte con in mano i bicchieri di tè caldo e le coperte termiche. Come sempre, tutte le autorità erano presenti, ognuno con la propria divisa: Polizia di Stato, Frontex, Croce Rossa, UNHCR ed EUAA (Agenzia dell'Unione Europea per l'Asilo). Oltre al personale sanitario di Usmaf (Ufficio di sanità marittima, aerea e di frontiera) e ASP (Azienda Sanitaria Provinciale) di Palermo.
Ci hanno chiesto delle coperte termiche e alcune di noi si sono avvicinate a quella parte del molo, giusto accanto alla motovedetta ormai ormeggiata. I miei ricordi a questo punto sono un po' offuscati. Ricordo persone che corrono con barelle sgualcite verso quella zona solitamente a noi inaccessibile, come se si fosse creata un'ennesima frontiera immaginaria ma tangibile, inserita all'interno di un luogo, il Molo di Lampedusa, reso a sua volta volutamente marginalizzato e invisibilizzato.
Le persone sbarcate non arrivavano, non venivano create le solite file ordinate, come accade a ogni sbarco. Le nostre compagne non ritornavano verso di noi e quindi abbiamo deciso di avvicinarci.
Tra le luci abbaglianti della motovedetta, da una parte vedevo delle persone che cercavano di alzare l'unica barella munita di ruote. Disteso sopra c'era un uomo in preda alle convulsioni, che muoveva il corpo senza che riuscissero a tenerlo fermo per poter correre verso le ambulanze. Superati alcuni operatori della Croce Rossa, mi è apparsa una distesa di corpi.
Corpi a terra, immobili, avvolti da coperte di pile grigio e coperte termiche.
C'era disorganizzazione, persone attonite, autorità immobili davanti a questo terribile scenario e persone che cercavano di far qualcosa. Mi sono avvicinata, tra le coperte a malapena si vedevano i volti di queste persone. Molti di loro erano lì, abbandonati a sé stessi. La medica di terra a un certo punto mi ha detto "dobbiamo fare in modo di farli restare con noi, scuoti i corpi, cerca di creare calore e fai in modo che tengano gli occhi aperti". Il tempo si è fermato, la parte emotiva del cervello ha smesso di funzionare e si è azionata quella pratica.
Mi sono avvicinata a un cumulo di coperte e ho visto che sotto c'era un corpo, freddo e immobile. Gli ho scoperto il volto e ho iniziato a parlargli. Aveva uno sguardo totalmente assente. Mi guardava, ma era come se non mi vedesse, non vedesse nulla. Non parlava e non si muoveva. Ho iniziato a fare come la medica mi aveva detto e intanto gli comunicavo che eravamo qui, eravamo insieme e "s'il vous plaît, mon ami, les yeux ouverts". Dalle coperte sentivo il gelo che proveniva dal suo corpo, completamente bagnato e con i vestiti zuppi che emanavano odore di benzina. Non riusciva, gli occhi continuavano a chiudersi e ad un certo punto si sono girati all'indietro.
In quel momento sono arrivate due persone con una carrozzina, l'obiettivo era portare tutte queste persone inermi nella stanzetta del presidio medico recentemente allestito dall'altro lato del molo. Lì fa caldo, c'è il riscaldamento e le persone possono ripararsi dal forte vento di quella sera e dal freddo della notte.
Con estrema fatica e con l'aiuto di altre persone, dopo un paio di tentativi, siamo riuscit3 a tirare su il corpo pesante e sfinito di questo ragazzo e metterlo sulla carrozzina. Era un ragazzo giovanissimo. I piedi continuavano a scivolare a terra e il corpo continuava a cadere da un lato. In due abbiamo iniziato a spingere la carrozzina. Il pavimento del Molo Favaloro è pieno di buche da schivare e di cavi per fornire elettricità alle barche ormeggiate della Guardia di Finanza, per cui era necessario alzare la carrozzina per evitare che si ribaltasse.
Siamo arrivat3 alla stanzetta con la fretta di portarlo in un luogo chiuso il prima possibile, ma con la lentezza dovuta alla sua situazione e alla condizione precaria del molo. Dentro la stanza c'era un ragazzo lasciato da solo seduto sulla panca, con il busto e la testa in avanti. Si trovava in uno stato di semi-incoscienza, ma a un certo punto ha sussurrato "eau". La persona con cui ero si è messa a correre verso l'inizio del molo per recuperare una bottiglia d'acqua. Si trovavano tutti in stato di disidratazione.
Nel frattempo era necessario spostare il ragazzo dalla carrozzina alla panca. C'erano solo due carrozzine a disposizione e quindi era necessario liberarle il prima possibile per poter trasportare altre persone.
Era tutto surreale e questa situazione è inaccettabile.
Nonostante non abbia alcuna competenza medico sanitaria, sono rimasta da sola con i due ragazzi, riversi su se stessi. Nel frattempo ho capito che alcune persone stavano venendo trasportate da un'ambulanza al Punto Territoriale di Emergenza (PTE), o Poliambulatorio, gestito dall'ASP di Palermo. A Lampedusa non esiste un vero e proprio ospedale, ma queste persone, che in totale saranno sei, si trovavano in una condizione ancora più critica rispetto a tutte le altre persone distese a terra.
Questa corsa da un lato all'altro del molo è stata una dinamica che si è ripetuta svariate volte nel corso delle ore successive. Corpi incoscienti, corpi agonizzanti trasportati anche di peso dalle persone lì presenti. Oltre all'unica barella munita di ruote, ce n'erano altre due che però andavano alzate e trasportate di peso. Nel caos della disorganizzazione, tra urla e corse contro il tempo, appaiono tra i miei ricordi scene in cui le carrozzine rischiavano di ribaltarsi in avanti a causa dei cavi elettrici o delle buche nel pavimento, persone indaffarate come pedine impazzite che cercavano di affrontare una situazione inaffrontabile, sforzi fisici nel tentativo di spostare questi corpi pesanti.
La mia volontà era quella di non fermarmi, sentivo che nel momento in cui l'avrei fatto un senso di sconforto e di impotenza assoluta mi avrebbe travolta. Seduta accanto a questi corpi, a volte mi guardavo attorno e per una manciata di secondi qualsiasi rumore scompariva, senza che io riuscissi a concepire cosa stesse accadendo.
Lo sconforto si è trasformato in rabbia nel momento in cui queste immagini crude, che mi riappaiono in mente, si sono inserite in modo razionale nel più ampio quadro di cui fanno parte.
Quella stessa sera, da dietro il corpo centrale della motovedetta ormeggiata, si è sentita improvvisamente una voce che si rivolgeva a chi si trovava sulla terra ferma: "qualcuno potrebbe aiutarmi? Tra questi corpi forse c'è qualcuno ancora vivo". Successivamente, ricostruendo i fatti, si è scoperto che, durante il tragitto della motovedetta CP308 verso le coste di Lampedusa, sette persone soccorse dal mare erano morte per ipotermia. Tutti ragazzi giovanissimi e una bambina di sei anni morta per annegamento.
Tra i corpi esanimi, c'era qualche persona cosciente in chiaro stato di shock e ipotermia.
A fronte di uno scenario così crudo da impressionare anche molti degli addetti ai lavori ormai "abituati" alla banalità del male del molo di Lampedusa, il personale di Frontex ha inteso comunque dar prova del proprio disinteresse nei confronti delle persone con cui ha a che fare, mostrando come il controllo e la sorveglianza dei confini non possano che trasformarsi in pratiche mostruose – sebbene tutte umane. Con un questionario in mano, un dipendente dell'Agenzia Europea si è avvicinato alle poche persone che riuscivano appena a tenersi in piedi da sole.
"Da dove siete partiti? In quanti? Quanto avete pagato? Quanto carburante avevate a bordo? Chi conduceva la barca?"
Le domande tagliavano l'aria pesante del molo.
Tali pratiche pre-investigative da parte del personale di Frontex sono abituali, ma completamente illegittime. Per prima cosa, dal punto di vista delle tempistiche. Che sia presente o meno la figura del monitoring officer (nota.1), si permettono di interrogare le persone appena sbarcate, senza esplicitare quale autorità rappresentino e quali siano i motivi e i fini delle domande poste. Li sottopongono a interrogatorio in un momento di confusione e vulnerabilità come uno sbarco, ancor prima che questi abbiano ricevuto i beni di prima necessità e un'informativa legale sul sistema di protezione internazionale italiano. Di fatto, la raccolta di informazioni sulla traversata è al di fuori di qualsiasi sistema di garanzie legali nei confronti delle persone interrogate, nonostante le risposte possano servire come prove probatorie e possano essere direttamente collegate a successive operazioni di polizia.
La ricerca di capri espiatori per le politiche mortifere, di cui le autorità europee sono responsabili, in questo contesto è risultata ancora più aberrante e disumanizzante. Le proteste da parte di alcune di noi hanno solo valso la robotica e arrogante risposta del responsabile di turno "quello che il mio collega sta facendo è molto più utile e importante rispetto a tutto quello che voi altri state facendo sul molo".
Nel frattempo, sempre più persone avevano raggiunto l'altra parte del molo. La maggior parte di loro non era in grado di parlare e non riusciva a muovere autonomamente il corpo.
Si era creata un'ennesima situazione surreale: il presidio medico è piccolo, non più di 10 metri quadrati, e tutte queste persone non ci stavano. È così che mi hanno suggerito di far sedere a terra accanto alla porta d'ingresso un ragazzo che, oltre a trovarsi in uno stato di ipotermia e visibilmente sotto shock, presentava delle ustioni sulle gambe. Dentro la stanza c'erano sei persone sedute a terra o sulla panca. Nel mezzo della stanza invece c'erano quattro medici rivolti sul corpo di un ragazzo, probabilmente ventenne, che non respirava. Era incosciente. Hanno eseguito le manovre di rianimazione cardiopolmonare, ma non rispondeva. Così hanno iniziato con il defibrillatore. Proveranno a rianimarlo per quasi un'ora, per poi constatarne il decesso.
Intanto, sulla panca c'erano due donne che erano state spogliate per indossare le tute bianche. Tremavano dal freddo al punto tale che non riuscivano a tenere in mano un bicchiere di tè caldo. Una di loro chiedeva a chiunque passasse da lì dove si trovasse sua figlia, non sapeva dove fosse e voleva trovarla. In questo scenario, queste due donne hanno iniziato a chiedersi a vicenda quanti figli avessero e se sapessero dove fossero. L'altra donna raccontava di aver visto sua figlia annegare, ma di non sapere nulla degli altri due.
Quella sera al Molo Favaloro non sono arrivat* bambin*. Nel cimitero di Lampedusa ci saranno 9 bare. Tutte persone giovanissime, tra cui una bara bianca della bambina di 6 anni.
Continuavano ad arrivare altre persone inermi, ma nella stanza non c'era più posto. Così venivano adagiate per terra sul cemento freddo davanti alla stanza, in attesa di essere portate sul bus della Croce Rossa con destinazione Hotspot.
22 superstiti, 9 salme e 15 dispersi.
Da domenica sera, queste persone si trovavano in mare, imbarcate su una barca di ferro e arrivate al Molo Favaloro mercoledì sera. Erano partiti dalla Tunisia, vicino a Sfax. Provenivano dal Mali, dal Burkina Faso, dalla Guinea Conakry e dalla Costa d'Avorio.
Una donna è sopravvissuta a due naufragi durante la stessa traversata. È stata recuperata in mare dalle persone sul barchino in ferro prima che anche questo affondasse. Era in mare da ore ed è l'unica superstite della sua imbarcazione. Altre 45 persone risultano disperse dalla prima imbarcazione.
Quello che è successo quella sera è stata una violenza, frutto di una volontà istituzionale che, con sfumature e dinamiche diverse, si ripete ogni giorno da anni. Questa impreparazione è l'equilibrio finale di un funzionamento sistemico intenzionato a prioritizzare la costruzione di luoghi di confinamento piuttosto che implementare strumenti e infrastrutture volte a dare una risposta degna e adeguata al fenomeno delle migrazioni.
Si tratta della volontà politica di mantenere la gestione degli arrivi in Europa come un'emergenza.
È inaccettabile che continuino ad accadere questi naufragi, che vengano implementati strumenti di sorveglianza per impedire alle persone di raggiungere l'Europa, e che però, un barchino come questo rimanga per quasi quattro giorni in acque di ricerca e soccorso maltesi in balia delle onde e del maltempo. I governi italiani continuano imperterriti a rafforzare collaborazioni e a donare motovedette alle cosiddette Guardie Costiere dei paesi delle coste nordafricane, che effettuano continui respingimenti e deportazioni per procura mentre naufragi, più o meno visibili e provocati da questa militarizzazione del mare, continuano a restituire corpi esanimi.
Non è un'emergenza. È la scelta di una risposta emergenziale da parte dell'Italia e dell'Unione Europea. Dopo tutti questi anni di narrazioni mediatiche e da parte dei governi, di implementazione di forze dell'ordine e di militarizzazione, non è possibile continuare ad essere testimoni di queste stragi.
In un sistema di gestione delle frontiere in cui tutto è confinato a determinati luoghi e spazi, in cui tutto è programmato in maniera meccanica come una catena di montaggio, è imprescindibile prevedere un'adeguata risposta a eventi come questo. Il Molo Favaloro è il primo esempio di una lunga lista della disattenzione consapevole e dell'impreparazione voluta nei confronti delle persone che vogliono raggiungere l'Europa. L'insufficiente presenza di personale medico e psicologico, l'inadatta condizione strutturale del molo e la carenza di strumenti e infrastrutture sono la dimostrazione di una chiara scelta politica sottostante.
nota.1: Il monitoring officer è la figura, interna alla stessa agenzia Frontex, che supervisiona le pratiche degli operatori sul campo.