Transfemminismo e Palestina
Come
si intreccia la lotta transfemminista con la resistenza palestinese?
Quali le prospettive comuni e come viene ampliato lo sguardo se
considerate congiuntamente?
Questa puntata di radio alqantara è dedicata
all'incontro di restituzione del ciclo di letture transfemministe sul
tema palestinese.
A partire dai manifesti del movimento palestinese QueerForPalestine, attraverso le letture dei saggi di Edward Said 'La questione palestinese', di Somdeep Sen 'Decolonizzare la Palestina', del collettivo anarcoqueer AQ 'Decolonizzare la Palestina', di Susan Abulhawa 'Ogni mattina a Jenin e del racconto di Suad Genem 'Prigioniera palestinese', ci siamo interrogate su cosa significhi adottare una prospettiva transfemminista nella comprensione della resistenza palestinese.
Dai nostri incontri, grazie alle letture che ci hanno accompagnate, a emergere è il ruolo del corpo della donna e dei corpi femminilizzati nelle pratiche di repressione e resistenza. La doppia oppressione - coloniale e patriarcale - che si dispiega nel sistema sionista, ma anche il valore della dignità di fronte all'oppressore, la forza della resistenza anche nelle pratiche quotidiane e l'importanza di valorizzare la bellezza per resistere all'occupazione.
Ogni luogo può diventare luogo di resistenza, ogni corpo è luogo di resistenza.
Partecipano: Bea, Claudia, Deanna, Giuliana, Lucilla, Sara
TRASCRIZIONE DELL'EPISODIO
"Appello liberatorio da parte di persone queeri in Palestina
In questo periodo, e in linea con lo sfruttamento di lunga data di politiche identitarie liberali, Israele ha strumentalizzato i corpi queer per contrastare qualsiasi supporto alla Palestina e qualsiasi critica al progetto coloniale. L3 israelian3 (politici, organizzazioni e "civili") hanno mobilitato dicotomie coloniali come "civilizzato" e "barbaro", "umano" e "animale" e altri binari disumanizzanti per legittimare gli attacchi alle persone palestinesi. Attraverso questa retorica coloniale, Israele cerca di radunare e mobilitare il sostegno dei governi occidentali e delle società liberali dipingendosi come una nazione che rispetta la libertà, la diversità e i diritti umani, che sta combattendo una società "mostruosa" e oppressiva. Questo lo ha reso chiaro la dichiarazione del Primo Ministro di Israele: "C'è una lotta tra i figli della luce e i figli delle tenebre, tra l'umanità e la legge della giungla".
Mentre queste dichiarazioni genocide e palesemente razziste prendono la scena, l3 attivist3 in Palestina e a livello internazionale stanno venendo mess3 a tacere, molestat3, detenut3, criminalizzat3; lavorator3 vengono licenziat3 dai loro posti di lavoro e l3 student3 sospes3 dalle università. Attivist3 femminist3 e queer, in solidarietà con la Palestina, in tutto il mondo, stanno affrontando attacchi e molestie da parte di sionist3, con la premessa che coloro che sostengono la Palestina sarebbero "stuprati" e "decapitati" dall3 palestinesi per il solo fatto di essere donne e queer. Eppure, il più delle volte, lo stupro e la morte sono ciò che l3 sionist3 desiderano per le donne e le persone queer che sono solidali con la Palestina. Le fantasie sioniste di corpi brutalizzati non ci sorprendono, perché abbiamo sperimentato la realtà della loro manifestazione sulla nostra pelle e sul nostro spirito. [...] Tutte le forme di violenza, compresa quella sessuale, fanno sistematicamente e strutturalmente parte della dominazione sionista sulla vita dell3 palestinesi. Eppure la società israeliana continua a strumentalizzare l'identità queer per giustificare la guerra e la repressione coloniale, come se le bombe, i muri dell'apartheid, i fucili, i coltelli e i bulldozer fossero selettivi rispetto a chi colpiscono in base alla sessualità e al genere."
Giuliana: Nel nostro percorso di gruppo di lettura questo giustamente è stato il primo testo insieme al comunicato di Non Una Di Meno su cui ci siamo soffermate a riflettere. Ovviamente, a parte la centralità che la dicotomia tra umano e animale ha in questo appello, che poi abbiamo ritrovato anche negli altri testi come motivazione dell'occupazione sionista in Palestina, c'è il fatto di dover civilizzare o comunque di affermare una superiorità etnica di una popolazione, di un popolo, su uno che in realtà negano, di cui negano anche l'esistenza. Dicevo che leggerlo dopo aver letto il racconto di Suaad mi fa venire in mente quello che rappresenta la violenza continua che i palestinesi e le palestinesi hanno subito negli ultimi 75 anni di occupazione sionista, che va ben oltre, appunto, ce lo siamo spesso dette, la narrazione del sette ottobre, di quello che succede dal sette ottobre in poi, che è sicuramente una fase acuta di un conflitto che però esiste appunto da tanti anni, da tanti decenni. Il fatto che in questo momento le palestinesi sentano l'esigenza di sottolinearlo questo aspetto, cioè che comunque c 'è in corso un''occupazione, appunto, che dura da decenni e che questa occupazione è stata sempre estremamente violenta, usando lo stupro come arma di guerra e come arma di occupazione. Questa cosa mi sembra molto interessante, si rileggeva appunto anche nelle parole di Suaad, nel suo racconto, sia durante il periodo di detenzione, appunto sullo fondo c'è sempre la minaccia, non solo dello stupro, proprio l'uso dei corpi, dei corpi delle donne in questo caso, come oggetti, come strumento di controllo, in qualche modo. E dall'altra parte, però, è molto interessante, come sempre, accostato al racconto della violenza, dell'occupazione della violenzia sionista, ci sia sempre comunque un racconto di resistenza. Che appunto è continua, che è una resistenza a più livelli, sia fisica ma anche culturale, che è fatta appunto di resistenza fisica ma anche di tramandare un senso di appartenenza, un senso culturale, un senso proprio di affermare e rivendicare l'esistenza, insomma, in qualche modo.
Deanna: Per collegarmi a quello che diceva Giuliana,l 'importanza del corpo della donna secondo me in tutto questo conflitto a partire anche dal sette ottobre, anche se appunto dura da settantacinque anni, è come il corpo della donna è stato non solo oggetto di… il corpo della donna palestinese è stato oggetto di violenza, ma anche come il corpo della donna israeliana venga strumentalizzato per giustificare violenza nei confronti dei palestinesi. Quindi come il sette ottobre sia stato dipinto come un attacco al corpo della donna israeliana, in cui appunto sono stati enfatizzati stupri e violazioni nei confronti delle donne che hanno contribuito a costruire quest'immagine del palestinese violento incivile che, come leggevamo nel manifesto, come leggevamo anche nel libro "La questione palestinese" di Said, è proprio un meccanismo coloniale di disumanizzazione dell'altro. E che quindi costruisce l'altro come barbaro, come incivile e quindi ne giustifica la colonizzazione, l'oppressione, il genocidio, in questo caso. Magari un passo in più rispetto a quello che diceva Said, in questo caso è proprio il corpo della donna che viene strumentalizzato per la violenza nei confronti della donna, che viene enfatizzata appunto per creare questo meccanismo di disumanizzazione nei confronti di chi si dice perpetri questa violenza. E quindi il genocidio, la guerra, nei confronti dei palestinesi, non solo l'occupazione ma anche proprio il genocidio viene giustificato come strumento di protezione dei corpi delle donne che sono stati violati. E questa è una cosa che va molto al di là di quello che succede in Palestina, perché vediamo anche come succede qua a Palermo, ovviamente non a livello di genocidio, ma a livello di militarizzazione delle strade, degli spazi, come anche lo stupro di luglio sia stato strumentalizzato per militarizzare la città. E quindi come ogni volta che c'è un atto di violenza nei confronti di una donna, questo poi venga appunto utilizzato per giustificare politiche di militarizzazione e di repressione. Politiche che poi in realtà non c'entrano niente con l'effettiva protezione della donna ma che in una mossa proprio pienamente coloniale e patriarcale utilizzano la necessità di proteggere il corpo della donna per imporre il proprio potere e per esercitare ancora più violenza.
Sara: È interessante magari vedere poi quando sono gli altri a parlare o a strumentalizzare il corpo delle donne viene fatto per giustificare l'oppressione, il genocidio, altre forme di violenza, o magari in ottica più vittimistica e quindi invece per sottolinearne la debolezza, la necessità di una qualche forma di proiezione. Invece quando è la donna a parlare del proprio corpo come in Suaad, è lì che diventa proprio strumento di rivendicazione e assume tutto un altro un altro significato. Non è una rappresentazione ma è proprio un… come è vissuto il corpo e quindi la potenza che in realtà ha. E quindi forse come emerge appunto principalmente nel racconto di Suaad che è un racconto in prima persona, una testimonianza di una donna che parla di come sia vissuta sul proprio corpo la violenza, però lo fa in maniera non vittimizzante, non a giustificare niente, semplicemente in maniera comunque forte.
Lucilla: In "Ogni mattina a Jenin", e purtroppo non sono riuscita a leggerlo fino in fondo, però, a parte la sovrapposizione che è successa per me tra la lettura di questo libro e le immagini a cui siamo esposte adesso, della guerra attuale, non so se condividete, però, per me leggere alcuni passaggi era proprio come avere una voce narrante su queste immagini, i video che ci arrivano adesso da Gaza. Anche perché descrive durante la guerra dei sei giorni queste bambine nascoste sotto la cucina di casa loro e la bimba, la cugina neonata che viene uccisa nei bombardamenti. E sovrapporre questo, cioè per me automaticamente leggere queste descrizioni si sovrapponeva alle immagini che vedo tutti i giorni in questo periodo, negli ultimi, cosa sono ormai… negli ultimi otto mesi.
E mi ha fatto anche pensare a come questa... leggere la descrizione del libro che dapprima ancora del 48, parte all'inizio degli anni 40, no? E poi io mi sono fermata poco dopo la guerra dei sei giorni - conoscendo comunque la storia, come è continuata, dove siamo arrivati oggi, immaginare questa violenza, proprio rende l'idea di questa violenza continua che non ha… è come se fosse una sorta di incubo protratto negli anni, cioè dalla Nakba, ma anche prima della Nakba. E in un certo senso, non lo so, mi interessa anche sapere come vedete voi questa cosa, però, mi ha dato, non so… sì, mi ha dato anche una prospettiva diversa su quello che è stato il 7 ottobre. Pensare per esempio a Jenin che è una città descritta nel libro, o meglio il campo profughi di Jenin che è stata occupata per tanti anni dopo il 67, e poi negli ultimi anni, anche l'anno scorso, si sentiva spesso parlare di Jenin perché lì c'era un movimento di resistenza abbastanza forte rispetto al resto della West Bank. Sì, non so, è come se ci fosse stato un risveglio adesso, un momento in cui ci rendiamo di nuovo consapevoli della violenza che per tanti anni era stata normalizzata e che però leggendo anche questo libro ti rende l 'idea di quanto sia una violenza continua, ma una sorta di trauma continuo, cioè non è una violenza latente, è proprio anche un livello di violenza che segna generazioni. E adesso il fatto che ci siamo dovuti rendere tutti più consapevoli di questo, non so, mi sembra importante nella riflessione su quello che è accaduto, anche quello che ha scatenato quest'ultima guerra.
Giuliana: No, io volevo aggiungere una cosa tornando un attimo indietro al ruolo… all'uso del corpo delle donne come, in qualche modo, strumento di giustificazione dell'occupazione sionista, no? Nel senso, l'occupazione sionista è un'occupazione civiliatrice anche perché il ruolo delle donne in quella società brutale è un ruolo di sottomesse, invece le nostre donne no, le nostre donne sono donne libere. L'altra volta nel gruppo di lettura riflettevamo proprio sul fatto che questo tipo di narrazione è anche una narrazione che è stata per il sionismo una narrazione molto utile anche per raccogliere il sostegno dell'Occidente, in qualche modo. Ma la cosa più critica penso sia anche il fatto che molte, alcune femministe bianche hanno in qualche modo sostenuto questa… utilizzato questa narrazione in chiave razzista e islamofobica, soprattutto, nei nostri territori. Quindi questo mi veniva in mente perché credo che ci sia una connessione tra queste narrazioni che… queste, entrambe le narrazioni, sia quelle che che avvengono direttamente da Israele quindi da chi occupa in Palestina, e quelle che poi invece attraversano i nostri territori, hanno in qualche modo in comune l'approccio coloniale, approccio coloniale di chi in qualche modo pensa di poter… sì, dominare, di poter in qualche modo civilizzare un'altra popolazione o altre persone, altri luoghi. E questo emerge anche dall'appello che abbiamo letto, perché proprio qui le persone queer palestinesi si rivolgono alle attivist3 e collettivi queer e femministi di tutto il mondo chiedendo solidarietà con il popolo palestinese nella sua resistenza allo sfollamento, alla pulizia etnica, all'occupazione, al colonialismo sionista. E poi specificano che nessuna liberazione queer può essere raggiunta con la colonizzazione e che nessuna solidarietà queer può essere promossa che rimane cieca di fronte alle strutture razziali, capitaliste, fasciste, imperialiste che ci dominano. È evidente come, no, in qualche modo anche quello che poi avviene alle nostre latitudini, un certo tipo di narrazione non è altro che… appunto islamofobica, razzista, non è altro che una narrazione che è a supporto poi di quelle pratiche coloniali, violente, militari, di guerra, di genocidio, direi meglio, che avvengono appunto da più di 70 anni in Palestina.
Deanna: Su questo, prima facevo riferimento alla violazione del corpo della donna israeliana come giustificatrice del genocidio, riguardando il libro che abbiamo letto "Decolonizzare la Palestina". Leggo:
"Purplewashing dei sionisti nei confronti della propria agenda nazionalista assume spesso la forma di un 'artificiosa preoccupazione per le donne palestinesi. In questo modo le donne palestinesi sono rappresentate come bisogno di essere salvate dagli uomini palestinesi."
Questo è un altro giustificante del genocidio, andare a salvare le donne palestinesi dall'oppressione degli uomini palestinesi, e quindi di nuovo andare a dipingere gli uomini palestinesi come violenti, come barbari, come non civilizzati, come appunto, islamici, islamisti, oppressori. Al contrario invece della civilizzazione occidentale europea che libera le donne come se appunto in Europa o in Israele le donne fossero libere. Però, appunto, utilizzare questo meccanismo che di nuovo è proprio il femminismo bianco che giustifica, non solo in Palestina, ma l'abbiamo visto in Afghanistan, l'abbiamo visto in tantissime guerre che portavano la cosiddetta democrazia e la civilizzazione e che hanno sempre fatto riferimento alle donne con il burqa, che bisogna liberare dai talebani, eccetera eccetera. Quando sappiamo benissimo che poi si creano semplicemente altre forme di oppressione e che anche questo è un meccanismo coloniale che mette di nuovo al centro la donna, per giustificare l'oppressione e che poi crea altre forme di oppressione. Questo lo vediamo anche nel controllo delle frontiere, nelle legittimizzazioni della militarizzazione anche delle frontiere, nel momento in cui si vuole proteggere le donne vittime di tratta dai trafficanti, appunto come se ci fossero queste categorie assolute di donne vittime, di trafficanti carnefici, ovviamente tutti razzializzati senza possibilità di sfumature, in cui magari le donne non sono vittime, tutte le donne migranti sono vittime di tratta, ma ci sono donne che scelgono di migrare e ci sono persone che le aiutano a farlo e che è proprio la criminalizzazione di questi viaggi, del movimento delle persone, che poi magari crea delle condizioni di vulnerabilità, di sfruttamento e di violenza.
Quindi anche lì, la militarizzazione delle frontiere è giustificata come tentativo di liberare e proteggere donne migranti dai loro carnefici, anche loro migranti o razzializzati. Secondo me è importante continuare a vedere anche questi parallelismi, tra altre guerre e altre forme di repressione, di controllo, perché ci permettono anche di andare oltre, di collegare, di analizzare quello che sta succedendo in Palestina all'interno di un contesto globale più ampio e analizzare i sistemi di potere che continuano a perpetrare queste forme di oppressioni al di là poi dei casi specifici. Quindi anche capire come resistere trasversalmente a queste forme di oppressione.
Lucilla: Sì, che però sono anche, nel senso, la donna musulmana piuttosto che la donna, comunque, colonizzata è oppressa finché non diventa… cioè molto facilmente da una posizione di donna oppressa senza… non autodeterminata eccetera, può mutare in minaccia, perché comunque produce terroristi, comunque, come abbiamo visto anche nel racconto di Suaad, può essere una terrorista anche lei e quindi questa posizione di subalternità le viene disconosciuta molto facilmente. Questo ovviamente anche al di fuori della Palestina, per quanto riguarda proprio le donne migranti, che finché sono vittime si possono in un certo senso governare meglio, però il rischio è sempre latente che diventino invece anche loro minacce.
E lì poi quando succede quello, è quella dinamica che scatena una violenza retorica e anche materiale che non ha più niente a che vedere con il pseudo-femminismo da cui si era partiti per opprimerla.
Bea: Io invece volevo un po' ricollegarmi sul tema anche appunto della vittimizzazione e un po' riprendendo anche i dialoghi che abbiamo avuto leggendo il racconto di Suaad. Perché ad esempio appunto in questo libro quello che… di una persona che vive sulla sua pelle torture e violenze, ma ciò che emerge in realtà è una grandissima dignità di questa persona, cioè lei stessa se la rivendica.
Quanto è differente un racconto… appunto parlare solo di torture, di violenze raccontate da altri? Cioè se avessimo raccontato la stessa storia, l'avessimo fatta noi ci saremmo focalizzati su i tipi di torture eccetera e avremmo dato l'immagine di una persona quasi forse… appunto, una vittima. Invece Suaad si appropria della propria storia, riappropria della propria storia e lei la racconta con la sua voce e lei non si vittimizza.
Cioè anche nei momenti più crudi trova o racconta le sue strategie che utilizza per resistere e anche appunto nel... quello che lei dice molto spesso nel libro è "meglio la morte che l'umigliazione" e quindi questo fa molto riflettere su anche appunto tutto il termine, cioè la tematica… sulla narrativa di come quando racconti la storia che stai vivendo e la restituisci non emerge quell'essere vittima, cioè ti riappropri della tua dignità.
Claudia: Eccomi, allora io volevo fare una piccolissima riflessione sull'analisi che stavamo facendo prima per poi ricollegarmi al discorso di Bea su Suaad. Anche un'altra cosa su cui mi stavo interrogando è questa visione estremamente coloniale che si mette in atto, della donna musulmana velata che viene oppressa dall'uomo arabo. È una visione e soprattutto in questo momento diventa anche narrazione di propaganda politica qui nei contesti europei. Non che non ci sia mai stata, ma in questo momento diventa sempre più strumento violento su cui noi secondo me dobbiamo attuare una riflessione e capire come opporci, perché queste propagande che in particolar modo, di cui io magari sono più informata, qui in Italia attuano una doppia violenza. Intanto sul corpo di una donna musulmana e in secondo e anche sul nostro corpo, un corpo altro che non si riconosce in una determinata religione come potrebbe essere quella dell'Islam. E anzi attua molteplici livelli di violenza perché in questo parallelismo tra la donna musulmana velata che noi non vogliamo nel territorio europeo rispetto ad una donna libera, cioè noi… Da una parte andiamo in assoluto, ci sta una visione di criminalizzazione sia del corpo della donna musulmana che dell'uomo musulmano. Questa cosa in questo contesto è qualcosa su cui dobbiamo interrogarci perché potrebbe portare ad un… già in questi anni in cui anche nelle carceri di massima sicurezza come sappiamo gli uomini accusati di terrorismo islamico sono diciamo una fetta, una percentuale molto importante che occupa dal 280bis al 41 bis. Quindi diciamo che questa visione accelera non solo questo processo di criminalizzazione del cosiddetto terrorista islamico, opera un lavoro di violenza dei corpi delle donne musulmane, ma allo stesso tempo violenta anche i nostri corpi, perché compie una una narrazzione di normalizzazione, di una visione uniformata di come noi dovremmo anche porci ed essere all'interno del nostro territorio.
Le donne, in questo caso italiane, libere, come ci descrivono partiti della maggioranza di questo governo, vanno bene però fino a quando sono comode e affini diciamo alla visione legata al potere costituito. Quindi nel momento in cui comunque siamo donne che appartengono sempre a questo paese, a questo sistema, però ribelli femministe che non si adeguano a determinati precetti, non andiamo più bene. E io credo che nei prossimi anni, anche con questa avanzata estremamente violenta… io sto aprendo questo discorso perché le ultime settimane di propaganda per le europee qui in Italia hanno portato a questa escalation violenta che si dà su più corpi e su più questioni. Quindi in realtà sarebbe forse interessante aprire anche questo dibattito in ottica di organizzazione, analisi, nostra, di fronte ad un nemico comune che comunque dobbiamo fronteggiare.
In secondo luogo, in realtà rifacendomi a quello di cui parlava Bea e ricollegandomi a Suaad che io credo che comunque sia stato un testo estremamente importante anche per questo ciclo di letture, un po' come ci dicevamo durante la discussione del testo, perché a volte la narrazione autobiografica, il racconto, per non dire romanzo, rende più personale e intima anche quella che è la lotta e la resistenza di un popolo. A volte la saggistica, per quanto fondamentale e importantissima, spersonalizza un po' e anche quando parliamo di un popolo in rivolta, un popolo che si ribella da più di 75 anni, a volte la domanda che può sorgere spontanea è: sì, un popolo ma da chi è composto questo popolo? Quali sono le personalità che compongono questa resistenza? In che modalità attuano questa resistenza? Anche perché come scopriamo dal racconto di Suaad, ci sono modalità di resistenza che sono estremamente nascoste e intime e mai narrate.
Quindi sì, ricollegandomi a quello che diceva Bea, tra l 'altro appunto, il racconto di Suaad si va a delineare almeno il momento della sua prigionia tra la fine degli anni 70 e gli anni 80, quindi ripercorre anche una fetta di… prima Lucilla parlava della guerra dei sei giorni, insomma è una fetta di storia molto ampia che come dicevi tu sembra un inferno continuo. Sono più di 75 anni di sempre in corso e all'interno del quale però appunto la resistenza del povole palestinese si dà in tantissime forme e io quella che vorrei ricordare che secondo me è una forma di resistenza estremamente potente è quella che si dà nella sezione femminile del secondo carcere in cui è rinchiusa Suaad in cui le compagne riescono a creare questa organizzazione di donne all'interno della sezione femminile e si battono attraverso… attuando tutta una serie di pratiche, arrivando anche allo sciopero della fame. Insomma, attuano un processo di resistenza incredibile da cui fondamentalmente magari in quel momento l'obiettivo della resistenza non è avere una Palestina libera, ma è avere una biblioteca delle donne all'interno della sezione, è poter sfiorare la mano della compagna da una sbarra ad un'altra, che sono poi appunto piccole, piccoli gesti. Devo dire che quel tratto di libro di cui si parla dello sfiorarsi delle dita tra due compagne rincluse in due celle diverse, mi è rimasto estremamente impresso perché in qualche modo, da chiaramente privilegiata, ho percepito quella sensazione e l'ho trovata di una potenza incredibile.
E sono chiaramente anche piccoli gesti di resistenza che come ci racconta Suaad anche una volta uscita, almeno nel suo caso nel 83, dal carcere l'hanno accompagnata, il ricordo di quelle forme di resistenza l'hanno accompagnata poi nella resistenza anche attiva nei territori occupati in Palestina e anche altrove per il progetto di liberazione più grande che è quello di una Palestina libera dal sionismo e dal colonialismo occidentale. Questa era una riflessione che a chiusura di questo ciclo mi interessava riportare perché lo trovo estremamente vero e umano, che mi ha commossa profondamente.
Sara: Anche io mi ricollego all 'ultimo intervento di Cla e Bea, riguardo anche come alla fine il potere anche coloniale sia esplicito e spesso anche attraverso la definizione magari dell'altro e quindi anche il voler categorizzare le definizioni come quella di vittima, come quella di terrorista, poi come sono sempre le grandi narrazioni, sempre fatte dal potere, comunque dalla potenza coloniale in cui poi si perde la soggettività, l'esperienza vissuta, anche, delle persone e che quindi poi come invece poi in realtà sia proprio questa, come diceva Claudia, anche la vera resistenza comunque, anche nell'esperienza nella vita delle persone, poi la resistenza sia fatta anche di piccoli gesti. Come ci sia molta sensibilità, molto sentire, e non sia una questione di ragionamenti più tecnici o comunque astratti, ma che le piccole cose, la sensibilità…. come…. una forma che ritorna magari nel racconto di Suaad, una forma di resistenza e anche i bei ricordi. Quindi riattaccarsi ai ricordi che aveva, erano ricordi belli, quindi fare forza su quelli per sopportare e resistere alle violenze a cui era sottoposta. Tutte piccolissime cose, sono sottili, che poi nelle grandi narrazioni si perdono e che però in realtà spesso sono proprio quelle che fanno la differenza e che sono fondamentali. E si perdono anche nel discorso della criminalizzazione della migrazione. Un po' se si vuole ritorna la mancanza dell'esperienza vissuta, del valorizzare l'esperienza vissuta e anche la presa di parola di chi quell'esperienza l'ha fatta.
Deanna: Per me quello che sta emergendo adesso è fondamentale perché come dici tu Sara, quello delle narrazioni dominanti non è solo un processo che non fa emergere queste forme di resistenza e di esistenza, ma è un processo che elimina la possibilità di queste forme di resistenza e di esistenza e a un certo punto diventa una narrazione disumanizzante.
E che quindi partecipa al genocidio, in un certo senso, o alle forme di violenza che vengono esercitate. Da una parte perché appunto continua a legittimarle, perché nel momento in cui la violenza viene esercitata contro non umani o meno umani, come abbiamo anche letto dentro Said, allora viene giustificata e dall'altra vittimizza senza appunto dare conto dell'agenzia, dell'autonomia delle soggettività coinvolte. E poi ci dà un'idea molto piatta dell'esistenza. E secondo me la bellezza dell'aver letto Suaad, di aver letto anche i manifesti, di aver letto delle poesie è proprio dare una ricchezza alle esperienze che abbiamo letto.
Quindi parlare di Palestina non solo come di abusi subiti, di prigione, come Gaza, Gaza che viene descritta come una prigione all'aria aperta. Per me, questa idea di prigione che poi viene utilizzata da persone che resistono contro l'occupazione, però riduce l'esperienza e la vita e l'esistenza all'interno di Gaza a quella di una prigione, mentre leggendo queste esperienze da un punto di vista più soggettivo, ciò che emerge è la ricchezza di queste esperienze, la vita che continua nonostante l 'occupazione. Questa esistenza che è resistenza, cioè solo esistere in quanto palestinese è una forma di resistenza. Non lo so, per me è fondamentale questo processo per riumanizzare soggettività disumanizzate, per dare rilevanza anche a forme di resistenza che non passano alla storia, come dicevamo anche quando leggevamo le figlie di Sappho.
Un'altra cosa che emerge da questo tipo di narrazioni alternative, dalla poesia, dal leggere i romanzi eccetera, è anche la collettività di queste forme di resistenza, sia in Le figlie di Sappho che in Suaad. Ciò che mi colpisce è la coralità di certe esperienze, che appunto nella saggistica non leggiamo, che nei manifesti anche, nonostante i manifesti siano oggetti collettivi, non leggiamo. C'è un passaggio di Suaad che magari volevo leggere… era che le nostre viste, le nostre resistenze vanno al di là di noi e quindi in Suaad emerge un sacco il tema della memoria, ma non come memoria individuale, come memoria collettiva. Quindi attraverso il nostro corpo passano anche i corpi di quelli che ci hanno preceduto, attraverso la nostra resistenza passa anche la resistenza di chi verrà dopo. I nostri corpi non sono individuali ma, come anche nelle figlie di Sappho, sono vettori di forme di resistenza che attraversano la storia e di cui noi siamo frammenti. E che nonostante la nostra frammentarietà comunque contribuiamo a questa storia.
A pagina 158 del racconto di Suaad, lei scrive:
"Le memorie di coloro che mi hanno preceduto si stanno intrufolando nelle cellule del mio corpo. Queste manette di ferro che aderiscono al polso e queste catene che bloccano le caviglie si stanno sciogliendo pian piano per il gran caldo. Supereranno la barriera della pelle infiammata fino ai tessuti ormai lacerati dall'attesa della morte. [...]
Immagino Afuri, qui, mentre sta masticando il vuoto del proprio stomaco. Sorrido e sussurro a me stessa, come sarà quando potrò tornare un'altra volta a una vita normale e masticare un cibo mio. [...]
Queste particelle di ferro arrugginite dentro le mani dei prigionieri portano in sé la memoria e le pulsazioni del loro cuore. Queste particelle si infilano nelle vene ed eccole che si stanno intrufolando senza ostacoli nel mio corpo appeso e ammanettato e mi portano storie e memorie infinite. Ogni palestinese, al di là della sua età, ha memoria e storia. E da embrione, ancora nella pancia della mamma, ha già un destino del quale non è responsabile."
E questo torna anche all'inizio del libro, quando lei è in cella, isolata, torturata e la sua memoria torna a quando era bambina e nuotava nel mare. E nel mare incontrava anche i corpi e gli spiriti dei martiri che l'hanno preceduta ed è una narrazione anche onirica che appunto come dicevamo nella saggistica non può emergere ed è solo attraverso il romanzo, la poesia, che è uno strumento molto femminista di narrazione, che possiamo anche far emergere questa dimensione meno scientifica, se vogliamo, della resistenza, della lotte, anche dell'esistenza, dell'esistenza non come individualizzata, ma come collettiva, come trans-storica e come… del nostro corpo come vettore di altri corpi e di altre soggettività.
Giuliana: Io volevo aggiungere qualche altro spunto rispetto a questo, intanto sulla questione dei martiri. Intanto il termine martire non è collegato a una visione religiosa come noi possiamo immaginare, ma con martiri si intende appunto, i palestinesi intendono tutti coloro che perdono la vita a causa dell'occupazione sionista. Ed è molto interessante come i martiri sono… i martiri del popolo palestinese, di tutto il popolo palestinese, no? Quasi come se ogni famiglia in qualche modo contribuisse, no? Alla lotta, anche attraverso i martiri che perdono la vita. Ed è interessante anche come abbiamo parlato in alcuni campi profughi, come venivano proprio rappresentati sulle pareti del campo i volti dei martiri, e questa era una… venivano appunto dipinti sui muri di notte. Perché anche rappresentare, la rappresentazione dei martiri in qualche modo rappresenta una forma di resistenza, cioè ricordare è forma di resistenza, conservare la memoria e tramandare la memoria.
Mi viene in mente anche in uno dei testi che abbiamo letto, quando si parla per esempio della nascita di Hamas, di come si racconta di un campo per bambini organizzato da Hamas, quello che si racconta è che in questo campo quello che domina su tutto è proprio il racconto della resistenza, cioè i bambini vengono impegnati con giochi, attività di tanti, tanto tipo, di diverso tipo, però c'è sempre come sottofondo il… appunto il racconto della resistenza, canzoni che ricordano, che richiamano la resistenza, che richiamano ai martiri, quindi è chiaro come resistenza significa evidentemente non soltanto lotta armata in Palestina, ma significa assolutamente costruzione di una memoria collettiva, salvaguardia di una memoria collettiva e anche in qualche modo passaggio di questa memoria collettiva da generazione in generazione.
Mi faceva riflettere poi anche la cosa che dicevi tu su Gaza, descritta spesso come carcere a cielo aperto. Io da un lato sono d'accordo con te, dall'altro penso che invece proprio il racconto di Suaad ci dice come in realtà anche il carcere è un luogo di resistenza, quindi anche Gaza, descritta come carcere a cielo aperto, rimane comunque il luogo della resistenza che ha tutte le forme che abbiamo descritto. E me lo fa pensare perché Suaad, per esempio, nel testo, a un certo punto dice che un suo obiettivo quando sarebbe uscita era portare fuori dal carcere il quaderno con le poesie scritte della sua compagna in detenzione e dalle carcerate. E questo secondo me è molto significativo, per non parlare del fatto che alla fine del testo sono riportate proprio le poesie che sono uno dei principali strumenti di lotta, di resistenza dentro il carcere. Poi ve ne volevo leggere una. Anche il racconto della resistenza dentro il carcere viene fatta proprio attraverso la difesa del diritto alla cultura, del diritto all'istruzione, del fatto che senza cultura non si esiste. Cioè non so io ci ho letto molto questo collegamento, cioè esistere significa avere un in qualche modo… costruire cultura, fare cultura avere la possibilità di confrontarsi di discutere di ragionare cioè credo che è uno degli strumenti della… anzi sicuramente l'abbiamo visto anche di recente quando l'esercito israeliano che brucia i libri delle biblioteche palestinesi o che distrugge i luoghi di formazione di studio, le università, le scuole, proprio a colpire un qualcosa che in qualche modo è il popolo palestinese, cioè la sua cultura.
Tra tutte le poesie insomma che sono riportate in fondo ce n'era una che secondo me è molto significativa (lo sono tutte) che è questa che secondo me proprio mi comunica immediatamente il senso di sumud, no? Di resistenza, e dice:
Non abbiamo paura della morte
e nemmeno del gemito del dolore.
Non temiamo la frusta e nemmeno i loro pugni,
sono l'altalena del nostro sumud,
su cui dondoliamo all'ombra di un olivo sonnecchiante.
Oh mamma, non è arrivato il tempo di abbracciare mio padre,
il momento dell 'addio arriverà.
Non ho paura del buio.
Il mio cuore è una lanterna,
e la mia voce si diffonde lungo il corridoio:
"Svegliatevi con una patria."
La sera quando spengono le luci noi salutiamo il giorno:
"Ci rivedremo presto, svegliatevi con una patria."
Cella 43 -29 -10 -1983.
Mi fa pensare come il fatto che se tu sei palestinese, se nasci in Palestina, se sei palestinese allora la morte diciamo non è un'opzione così impossibile, anzi forse quasi la mette in conto perché dice "non abbiamo paura della morte, il buio non ci fa paura" e ce lo raccontava anche la persona palestinese con cui ci siamo collegati qualche giornata, qualche settimana fa in un'iniziativa che si occupa di educazione in un campo profughi, e ci diceva che i bambini in qualche modo hanno dimestichezza con la morte, nelle loro famiglie c'è sicuramente qualcuno che era già perso la vita, che è un martire, nelle loro famiglie c'è qualcuno che ha perso un arto per causa appunto della guerra.
Ma nonostante questo appunto la necessità di resistere in qualche modo… cioè tutto ruota intorno comunque al sumud, alla resistenza del popolo palestinese. La morte, la vita, la luce, il buio, quello che avviene, in qualche modo, che subiscono, dice è un'altalena del nostro sumud. Questa cosa mi mi sembra molto importante, mi fa pensare che dopo quello che sta succedendo adesso, comunque la resistenza palestinese continuerà a esserci. E questo credo che sia anche un grande insegnamento, un messaggio molto importante rispetto alla solita narrazione della sconfitta che spesso accompagna i movimenti che provano ad essere rivoluzionari, spesso e volentieri. Invece questa cosa mi sembra molto importante.
Lucilla: Io ho imparato in questi ultimi mesi che in realtà la parola araba shaheed si può tradurre come martire, ma ha anche un significato un po' diverso che è quello del testimone e secondo me è importante. Cioè per me è stato molto importante imparare questa cosa, perché spesso l'idea del martire viene anche criticata perché in un certo senso può sembrare che sia un modo per glorificare o idealizzare la morte in un certo senso. Invece parlando di testimone per me è come se facesse quasi l'opposto, cioè da valore a ogni vita persa nel genocidio, nella guerra, nell'occupazione, perché appunto la vita di una persona palestinese testimone della storia, testimone della resistenza, testimone di questa complessità anche di cui avete parlato… E volevo ricollegarmi a quello che diceva Deanna prima perché secondo me è importante proprio questa disumanizzazione che avviene del popolo, delle persone palestinesi anche quando si enfatizza solo la resistenza e la capacità di resistere. Cioè quello che secondo me fa sia il racconto di Suaad, che anche il romanzo Ogni mattina a Jenin è di appunto… quello che dicevi tu, Deanna, che è di rendere la complessità delle vite, di rendere anche le trasformazioni in queste vite, anche nei legami tra le persone. Mi sembra che forse se alle donne palestinesi questa complessità spesso venga negata, sicuramente viene negata anche agli uomini palestinesi, cui non viene concessa una vulnerabilità, cui non viene concessa… come se fossero descritti sempre o come terroristi oppure come appunto eroi martiri della resistenza.
Mentre per esempio nel libro di Susan Abulhawa, c'è questo passaggio sul rapporto tra il padre Youssef e la figlia Amal, che per me è molto bello, anche molto importante. In questa guerra di cui siamo testimoni adesso spesso si parla delle vittime donne, bambini, è come se gli uomini...
Se agli uomini non fosse concessa l'umanità, la vulnerabilità anche nella morte. E quindi sì, questa cosa non contraddice il sumud e l'importanza della resistenza, però per me è anche un appello, un modo per ricordarci che non possiamo, che dobbiamo, che siamo interdipendenti, che siamo responsabili, che non possiamo permetterci di osservare e di, come dire, di abbandonare il popolo palestinese alla propria sorte fidandoci del fatto che comunque ha sempre resistito. Ma che in un certo senso questa vulnerabilità ci ricorda anche quanto siamo legati e quanto sia importante che anche noi portiamo la voce, la solidarietà e il richiamo, per fermare il genocidio, per fermare la guerra anche dove viviamo, dove lottiamo nei contesti in cui ci troviamo noi.
Claudia: Mi ha colpito l'intervento di Giuli, quando ha parlato ad esempio dei centri estivi organizzati da Hamas, in questo caso nei primi, prima, seconda metà degli anni 90 e questo in realtà mi ha fatto ripensare come dicevi tu Giuli al progetto di scuola popolare messo in atto ad Dheisheh, che ci raccontava il compagno palestinese che si è connesso e che ci ha portato la sua testimonianza dandoci un sacco di forza. Perché una cosa che in questi mesi è emersa tantissimo e che ogni volta che riusciamo ad avere la testimonianza di una persona palestinese si dimostra estremamente più potente e ricca di determinazione, energia, di potenza rivoluzionaria, molto più di quanta possiamo averne noi.
In realtà, la cosa che mi ha colpito molto è anche quando lui diceva che è ovvio che i bambini, le bambine all'interno dei campi sono consapevoli di poter incontrare la morte e accoglierla e abbracciarla in nome di un progetto di liberazione, di un processo di liberazione più grande. Ed è però anche molto importante ciò che ci ha riportato il compagno, cioè il fatto che a volte anche le persone più adulte palestinesi devono mettere un freno alle bambine, bambini, ragazzi, le ragazze in ottica di autotutela. Cioè a volte, e lui ci spiegava che anche in questi mesi i ragazzi e le ragazze vanno a combattere fisicamente contro l'entità sionista con in tasca già il loro testamento, come se scontrarsi ovviamente con l'entità sionista comporterà con grandissima probabilità la morte.
E lui diceva è ovvio che in un processo di liberazione rivoluzionaria, queste sono cose che dobbiamo mettere in conto, ma noi abbiamo bisogno di tutta la potenza e la forza della nostra parte più giovane, cioè insomma delle ragazze e dei ragazzi e quindi niente, ci riportava anche un pochino, a volte, cioè ci ha fatto… è stato potente perché a volte noi romanticizziamo, anche, questa visione di giovani donne e uomini che combattono. E che invece giustamente il compagno in collegamento ci diceva, sì, però per noi è importante che loro comunque conservino la loro vita e quindi dobbiamo trovare anche noi strumenti per tutelarci.
Giuliana: No rispetto all 'ultima cosa che si diceva, alle necessità comunque di essere vivi, di essere un popolo vivo per resistere. Mi faceva riflettere su come anche la maternità sia diventata per le donne palestinesi uno strumento di resistenza. Proprio, tralaltro, il popolo palestinese… più del 60 % della popolazione, ha un'età inferiore ai 20 anni. Quindi, abbiamo detto che la resistenza palestinese ha veramente tante forme. E questo mi ha molto interrogato nel senso che anche l'idea di maternità, la maternità noi per esempio qui, lo vediamo anche adesso, di recente, è stata una manifestazione proprio per difendere il diritto all'aborto, Anche il diritto alla maternità in realtà perché anche qui non è garantita. Nel senso, che comunque la scelta di diventare mamma è sempre una scelta molto individuale, non è supportata, mamma o papà, genitori in generale.
Però diciamo che il dibattito sulla maternità è molto polarizzato intorno al diritto all'aborto, che è sempre più spesso negato. Questo mi ha fatto molto riflettere su come invece il tema della maternità, per altre donne che vivono in altri contesti, in altre esperienze, abbia invece esattamente l'opposto. Cioè la resistenza in quel caso invece è proprio accedere alla maternità e mettere al mondo nuove generazioni di palestinesi che continueranno in qualche modo a praticare la resistenza, proprio perché un popolo resiste fino a quando vive, fino a quando esiste, poi sarà completamente sconfitto. Ne è la prova il fatto che il tentativo di genocidio è proprio il tentativo di eliminare parte di quella popolazione che in effetti poi è avvenuto, perché dal 7 ottobre sono più di 35 mila morti nella striscia di Gaza, quindi è chiaro che l'obiettivo è quello di eliminare fisicamente i palestinesi di Gaza, in questo caso. Questa cosa mi ha fatto molto riflettere, mi ha fatto anche molto interrogare su come appunto il corpo delle donne in questo caso può essere considerato uno strumento di resistenza e su come anche spesso la narrazione è stata molto razzista, cioè perché come se le donne palestinesi non potessero scegliere autonomamente di diventare madri per la resistenza anche o per il bene collettivo perché anche questa cosa, questo fenomeno è sempre raccontato come le donne palestinesi costrette alla maternità per foraggiare le file della resistenza.
La cosa evidentemente più violenta secondo me del racconto coloniale è proprio l'incapacità delle donne di autodeterminarsi, sempre e comunque, le donne che hanno il velo ce lo hanno perché gli viene imposto, le donne che diventano madri lo fanno perché in qualche modo qualcuno, qualcuno, chissà chi insomma però gli impone di farlo, il maschio normalmente gli impone di farlo. Oppure in qualche modo anche in occidente la narrazione dell'aborto per esempio è molto narrata nei termini di donne costrette e mai che lo scelgono autodeterminandosi, quindi questa cosa insomma secondo me è interessante come in qualsiasi contesto in qualsiasi periodo storico comunque l'attacco alle donne è un attacco alla loro autodeterminazione anche nella narrativa, non soltanto poi nella pratica, anche quella è vera, ma anche nel racconto, non si parla mai di donne che scelgono di fare cose, anche criticandole, si parla sempre di donne che qualche modo subiscono, sono vittime, tornando poi al discorso che abbiamo introdotto, la vittimizzazione, sempre e comunque.
Claudia: Vi ringrazio tantissimo di queste chiacchiere, di questa restituzione. Credo che sia stato un ciclo di lettura e di confronto fondamentale in questi mesi. Credo soprattutto che avere un processo di lettura transfemminista legata anche alla questione palestinese in questi mesi sia stato fondamentale poi per portare discorsi e dibattiti e anche visioni alternative all'interno delle lotte più radicali, di strada, di mobilitazione che è importante che portiamo avanti all 'interno dei nostri territori e quindi grazie.
"Rifiutiamo la strumentalizzazione della nostra identità queer, dei nostri corpi e della violenza che affrontiamo come persone queer per demonizzare e disumanizzare le nostre comunità, soprattutto al servizio di atti imperialisti e genocidi. Rifiutiamo che la sessualità palestinese e gli atteggiamenti palestinesi verso diverse sessualità diventino parametri per confererire umanità a qualsiasi società colonizzata. Meritiamo la vita perché siamo umani, con la moltitudine delle nostre imperfezioni, e non per la nostra vicinanza ai modi coloniali di umanità liberale. Rifiutiamo le tattiche coloniali e imperialiste che cercano di alienarci dalla nostra società e di alienare la nostra società da noi, sulla base della nostra identità queer. Stiamo combattendo contro sistemi di oppressione interconnessi, tra cui il patriarcato e il capitalismo, e i nostri sogni di autonomia, comunità e liberazione sono intrinsecamente legati al nostro desiderio di autodeterminazione. Nessuna liberazione queer può essere raggiunta con la colonizzazione, e nessuna solidarietà queer può essere promossa se rimane cieca di fronte alle strutture razziali, capitaliste, fasciste e imperialiste che ci dominano." ("Appello liberatorio da parte di persone queeri in Palestina)